CRIMINISERIALI.IT

PRESENTAZIONE

CRIMINISERIALI.IT è un sito a scopo divulgativo,riguardante,a dispetto del nome, non solo i fenomeni di serial-crime, ma tutto ciò che abbraccia la criminologia e lo studio della criminalità.   [ read more ]

Centro Studi & Ricerche in Psicologia Clinica & Criminologia

Costituitosi nel 2007 con sede in Napoli, il Centro Studi promuove iniziative di Formazione e Ricerca inerenti le Scienze Criminologiche e Forensi. [ read more ]

Links

seguici su Facebook

Links e Siti Partner

HOME   ARTICOLI   EVENTI  BOOKSHOP   CONTATTI

PENA E SALUTE PSICOFISICA IN CARCERE : dalla rieducazione alla compatibilità carceraria
(Articolo a cura di Maria Giovanna Lanatà)


Il termine pena in origine ha significato da un lato «riparare», compensare, dall’altro coincideva con la punizione, il castigo, esprimendo simultaneamente ricompensa e «dolore»; dunque un contraccambio che implica una sofferenza inflitta per compensarne una analoga e precedente.
Da tale concezione deriva inevitabilmente che la pena può agire come corrispettivo della colpa solo se provoca patimento, anche se questo non conferisce o aggiunge, ma semmai sottrae e indebolisce. A tal proposito è magistrale la lettura che ne dà Fassone nel libro “Fine pena ora” (2015, Sellerio Editore) nato dalla copiosa corrispondenza con un ergastolano durata ben 27 anni. In uno dei passi più belli dell’opera il giudice afferma che:
“per i detenuti è sofferenza la perdita del presente stesso, anni di vita prelevati al futuro e depositati nel passato senza transitare per il presente”; dunque la comunità offesa dal delitto, reclamante giustizia, si fa risarcire con fette di vita.
Così si consuma, ogni giorno e senza fine, la morte interiore del reo.
Una morte sicuramente diversa, poiché non terrena, da quella che i padri costituenti hanno vietato nel nostro ordinamento, imprimendolo nero su bianco all’interno dell’art. 27 della Costituzione, ma che è pur sempre oblio, un punto di non ritorno e da cui è noto si manifestino con facilità delle reazioni a livello psichico, con le abituali caratteristiche fenomenologiche, che sono facilitate nel loro sviluppo dalla situazione carceraria, dalle condizioni di vita, non certo facili, che i detenuti sono costretti a sopportare.
Per riflettere circa i diritti dei detenuti nel contesto della previsione costituzionale e la funzione rieducativa della pena, dobbiamo partire dal presupposto che le limitazioni alla libertà personale non significano compressione totale dei diritti.
È proprio l’articolo 27 della nostra Costituzione che ci spiega in poche battute come dovrebbe, ma purtroppo sempre più raramente è, essere intesa e vissuta la pena, non tanto per il recluso bensì per la società civile. A norma, dunque, del citato articolo costituzionale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
La rieducazione è la finalità ideologica della pena e consiste nel creare da parte dello Stato durante l’esecuzione della stessa, le condizioni necessarie affinché il condannato possa successivamente reinserirsi nella società, in modo dignitoso, mettendolo poi in condizioni, una volta in libertà, di non commettere nuovi reati. Tale finalità fu introdotta proprio per salvaguardare la dignità umana quale diritto fondamentale dell’uomo in quanto tale; ma ci si chiede, lecitamente, se sia davvero così, se il nostro sistema penitenziario miri e garantisca davvero quanto la costituzione statuisce.
La stessa Corte Costituzionale, alla luce delle risultanze del nostro sistema giuridico e penitenziario, si è trovata a ribadire, più volte, come nella Sentenza n° 349 del 1993 (Corte Costituzionale, Sent. n° 349/1993), che chi si trova in stato di detenzione, pur privato della sua maggiore libertà, “ne conserva sempre un RESIDUO che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale”. Sebbene le ovvie limitazioni della libertà personale sopracitate portino fattori di rischio automatici rispetto all’impatto psicologico, l’istituto carcerario ha il dovere di arginarli ed affrontare le eventuali ripercussioni.
Si stima che attualmente il tasso di suicidi in carcere nel nostro paese sia di circa 9,1 x 10.000 detenuti; il tasso di suicidio totale della popolazione italiana, invece, è di circa 1 x 20.000 residenti.

Esplicativo può essere esaminare il fenomeno evolutivo che ha interessato il termine pena, paragonabile a quello che ha avuto come protagonista la parola phármakon;  dal punto di vista semantico, così come per quest’ultimo si è poco alla volta dimenticata l’ambivalenza di significati che ne era all’origine, per la quale non era concepibile una «medicina» che non fosse al tempo stesso anche un «veleno», anche per la parola pena si è assolutizzato gradualmente il solo significato positivo del termine. Comminare una pena non significa ristabilire un equilibrio turbato se non a patto di un ulteriore squilibrio; una «riparazione» che non cancella la preesistente lesione, ma la riproduce altrove.
Questo altrove, che si sostanzia nella vita del reo, intendendola a 360 gradi, è in netto contrasto con il Supremo Collegio che, nella composizione della I° Sez. Penale, il 5 giugno 2017 (Cass. I° sez. Pen. sent. n° 27766 del 5.6.2017, ud. 22.3.2017), ha rammentato l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, affinché la pena non si risolva in un trattamento inumano e degradante, nel pieno rispetto dei principi di cui agli artt. 27, comma 3, Cost. e 3 C.E.D.U., la valutazione riguardante l’applicazione della detenzione domiciliare non deve ritenersi limitata alla patologia implicante un pericolo per la vita della persona, dovendo estendersi piuttosto ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure in carcere. (Cfr. Cass, Sez. I pen., 24 gennaio 2011; Cass., Sez. I pen. 8 maggio 2009).
Tale orientamento giurisprudenziale traccia quindi la strada di una valutazione delle condizioni Psico-Fisiche in relazione alla compatibilità con il carcere di un soggetto.
Questa giurisprudenza si fa garantista dell’art. 146 c.p. che prevede la possibilità di sospendere l’esecuzione della pena del condannato affetto da una malattia "così grave da non rispondere più ai trattamenti sanitari disponibili e alle terapie", oppure affetto, ex art. 147 c.p., da una "grave infermità fisica".
La ratio di tali disposizioni, che costituiscono un’eccezione al principio che le pene inflitte devono essere espiate, si rinviene nel già citato art. 27 della Costituzione.
Si ritiene pertanto contrario al senso di umanità contenere in carcere persone nei cui confronti le cure mediche sono inutili perché in uno stadio troppo avanzato della malattia, o che comunque sono
afflitte da patologie così gravi da non sentire più neppure l’effetto rieducativo della pena.
 Ciò premesso, è nozione generalmente, e da tempo, acquisita che la tutela della salute faccia parte del patrimonio giuridico inalienabile di ogni persona, indipendentemente da quale sia la sua condizione rispetto alla libertà personale, se cioè sia libera o detenuta.
L’O.M.S. ha emanato in tal senso delle direttive intitolate “Principio di equivalenza delle cure”, con cui ha sancito l’esigenza di garantire al detenuto le stesse cure mediche e psico-sociali che sono assicurate a tutti gli altri membri della comunità.
Ed è uniformandosi a tale principio, e ribadendolo, che la Corte Europea dei Diritti Dell’Uomo (Corte EDU, 7 febbraio 2012 - Ricorso n. 2447/05) ha affermato che il principio generale secondo cui le cure dispensate in ambiente carcerario devono essere di un livello paragonabile a quello che le autorità dello Stato si sono impegnate a fornire a tutta la popolazione vada ben oltre gli obblighi positivi che la nostra giurisprudenza ha finora posto a carico degli Stati in materia di detenzione di persone malate.
Non si deve d’altra parte dimenticare che il diritto alla salute comprende una pluralità di situazioni diverse che vanno dall’aspetto prettamente medico (con il corollario del diritto alle informazioni sulle stesse, alla comunicazione con i congiunti, all’accesso ai dati riguardanti le cure praticate), al diritto al mantenimento della propria identità psico-fisica, al diritto alla salubrità dell’ambiente, al diritto degli indigenti (categoria in cui rientrano tutti i detenuti indipendentemente dal reato commesso) alle cure gratuite, al diritto di accesso alle strutture.
La Costituzione italiana ha recepito i principi della Conferenza Internazionale della Sanità definendo la salute sia come "fondamentale diritto dell’individuo" che come "interesse della collettività";
un diritto soggettivo assoluto, dunque, assicurato dallo Stato, tramite l’art. 2 della Costituzione, sia ai cittadini liberi che ai ristretti, e la sua tutela costituisce, per l'art. 3 della Costituzione, uno strumento di elevazione della dignità sociale dell’individuo.
La duplice valenza, privatistica e pubblicistica, del diritto costituisce, proprio per i soggetti detenuti, la garanzia che non possa essere tollerata dal sistema ordinamentale una deminutio di entità tale da far degradare il sistema al di sotto degli standard internazionali in materia.
Come si declina, allora, il diritto alla salute per una persona privata della libertà personale?
Nella situazione attuale si verificano delle compressioni, delle limitazioni al diritto, che, pur non arrivando al limite previsto dall’art. 3 della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo (CEDU Articolo 3 Proibizione della tortura: nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti), sono tuttavia significative e segnano la distanza, la differenza, con la condizione del libero cittadino.
Ed è proprio per ovviare a tale discrasia che la Corte Europea ha imposto agli Stati di assicurarsi che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l'interessato ad un pericolo o ad una prova la cui intensità superi l'inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, in considerazione delle esigenze pratiche della carcerazione, siano assicurati in maniera adeguata la salute ed il benessere del prigioniero, soprattutto tramite la somministrazione delle cure mediche richieste (Corte EDU, Grand Chamber, Kudła c. Polonia, ricorso n. 30210/96, § 94, 2000-XI). Mostrando un certo realismo e tenendo conto della particolarità del contesto carcerario, ha anche considerato che l'articolo 3 della Convezione non può essere interpretato come una norma che sancisce un obbligo generale di liberare un detenuto per motivi di salute o di collocarlo in un ospedale civile per permettergli di ottenere un trattamento sanitario di tipo particolare (Mouisel c. Francia, no 67263/01, § 40, CEDU 2002-IX). In più occasioni, la Corte ha dichiarato che l'articolo 3 della Convenzione può essere interpretato come una norma che garantisce ad ogni detenuto un trattamento medico dello stesso livello di quello dispensato nelle migliori cliniche civili (Mirilachvili c. Russia (dec.), no 6293/04, 10 luglio 2007; Grichine c. Russia, no 30983/02, § 76, 15 novembre 2007 ).
Fermo restando che la valutazione relativa alla compatibilità tra regime detentivo carcerario e condizioni di salute del recluso, ovvero la verifica della possibilità del mantenimento o meno dello stato di detenzione carceraria di persona gravemente debilitata e/o ammalata deve essere condotta attraverso la disamina comparativa della situazione patologica e delle modalità di esecuzione della pena detentiva in ambiente carcerario ed implica un giudizio, da un lato di astratta idoneità dei presidi sanitari e terapeutici accessibili per il detenuto in dipendenza del regime impostogli, dall’altro dell’effettiva somministrazione delle cure praticabili e della loro concreta adeguatezza tenuto conto altresì del fatto che nel procedere alla necessaria ed ineludibile verifica della sussistenza, o meno, della pericolosità del condannato e, secondo l’esito, all’eventuale valutazione comparativa fra quegli elementi, il giudice, quando è chiamato a decidere sul differimento dell’esecuzione della pena o, in subordine, sull’applicazione della detenzione domiciliare per motivi di salute, deve effettuare un bilanciamento tra le istanze sociali di tutela della collettività, a fronte della pericolosità del detenuto, e le condizioni complessive di salute di quest’ultimo, includendo anche le possibili ripercussioni del mantenimento del regime carcerario in termini di aggravamento del quadro clinico (sez. 1, n. 37062 del 09/04/2018; sez. 1, n. 53166 del 17/10/2018; sez. 1, n. 36322 del 30/6/2015).

Il Dott. Fabio Delicato, Criminologo e Psicopatologo Forense, sul punto afferma: “La valutazione circa la compatibilità carceraria del reo al giorno d’oggi risulta molto complessa e va valutata caso per caso ed a seconda della patologia e della possibilità di terapie e cure praticabili durante la detenzione. In particolare circa le patologie psichiche sopravvenute in regime detentivo, ramo di cui in qualità di CTU e Perito del Tribunale mi occupo spesso, l’attenzione è sempre più alta, visto anche l’elevato numero di suicidi negli istituti penitenziari e case circondariali. C’è da tenere presente l’ovvio e fisiologico impatto sulla psiche di una pena detentiva, che non può di per sé essere causa/giustificazione di una richiesta di misura alternativa o incompatibilità carceraria, bensì occorre che nel periziato vi sia una effettiva sintomatologia tale da non poter essere trattata in detta sede. A tal riguardo sintomi Depressivi, stati d’Ansia, reazioni da Stress possono essere fisiologiche, e non configurabili una incompatibilità. D’altronde le forti difficoltà del sistema carcerario, non solo italiano a dir la verità, rendono comunque la gestione psicologica dei detenuti molto complicata e sicuramente sarebbe auspicabile una maggiore attenzione a riguardo, proprio per non incorrere in una afflizione ulteriore alla pena comminata.”
Una maggiore attenzione che farebbe si che la sanzione penale possa offrire al reo la possibilità di orientare la propria esistenza, nel senso del rispetto di quella altrui, tendendo a favorire un’effettiva integrazione del soggetto, da ottenersi tramite la realizzazione di un programma di (re)inserimento basato sul training sociale e sull’emancipazione individuale, momento questo in cui il supporto psicologico per un recluso è di lapalissiana importanza.


Lanatà, Maria Giovanna, Praticante Avv.